Noi tutti viviamo in un mondo glocal, dove gli eventi globali si mescolano sempre più con quelli locali. E così in pochi giorni assistiamo impotenti davanti alla tv o su internet a quello che sta diventando sempre più un esodo biblico di intere popolazioni di paesi colpiti da guerre, feroci dittature, pulizie etniche e religiose, carestie, povertà assolute che cercano una disperata via di uscita in una fuga verso l’ignoto, verso l’Europa. Per loro la denominazione di “migranti” non è più applicabile: costoro sono profughi che scappano dalla loro terra per cercare di sfuggire alla morte. Giorno dopo giorno, allo steso tempo, assistiamo ugualmente impotenti all’inesorabile e inarrestabile depauperamento (economico, sociale, culturale, morale) delle nostre comunità. Fenomeno che ci tocca sempre da più vicino tanto da sfiorarci quasi fisicamente se non colpendoci direttamente alla bocca dello stomaco, oltre che al portafoglio. Siamo anche noi vittime di guerra, futuri profughi di una guerra non combattuta a suon di cannonate, ma egualmente rovinosa e devastante. Siamo anche noi vittime di bombardamenti esattamente come quella umanità sofferente che vediamo morire nelle acque del mediterraneo. Le bombe di quelle guerre distruggono la città mettendole a ferro e fuoco e lasciando solo macerie. Qui da noi la guerra invisibile sta distruggendo il nostro tessuto economico e sociale facendo chiudere oggi un panifico, domani una gelateria…. giorno dopo giorno, silenziosamente le serrande di imprese, società, artigiani, si abbassano per non alzarsi più il giorno dopo. Muoiono e spariscono silenziosamente nel caos della vita quotidiana. Ogni tanto, però, queste bombe colpiscono qualche palazzo importante, qualche industria, qualche centro commerciale in cui lavorano centinaia di persone. Allora, questa bomba economica invisibile, il rumore lo fa eccome e tutti, per un attimo, restano pensierosi e sbigottiti, prima di rituffarsi nel caos della battaglia quotidiana per la sopravvivenza. Ognuno per se e dio per tutti. Ma qual'è il legame tra queste due realtà appena descritte? Qual’è la connessione che tiene insieme queste due tragedie? Cosa hanno in comune i profughi e i licenziati? Da uno studio di Oxfam emerge che nel 2016 l’uno per cento della popolazione mondiale sarà più ricco del restante novantanove per cento. In altre parole l’1% della popolazione mondiale avrà concentrata nelle sue mani il 51% dell’intera ricchezza del pianeta. Oxfam, in una nota, chiede ai governi di adottare un piano di sette punti per affrontare la disuguaglianza: dal "contrasto all'elusione fiscale di multinazionali e individui miliardari" all'introduzione "di salari minimi". Se lo scorso anno, sempre secondo Oxfam, "gli 85 paperon dè paperoni del mondo detenevano la ricchezza del 50% della popolazione più povera (3,5 miliardi di persone). Quest'anno il numero è sceso a 80, una diminuzione - sottolinea - impressionante dai 388 del 2010. La ricchezza di questi 80 è raddoppiata in termini di liquidità tra il 2009-2014. Il problema che sta alla base di tutto è quindi la sempre più squilibrata distribuzione della ricchezza nel mondo. Questo vuol dire che la stragrande maggioranza di tutti noi lavora e produce ricchezza che non resta nel territorio o nella nazione in cui vive, ma “se ne va” a ingrassare quei pochi conti correnti dei grandi paperon de paperoni planetari. E’ evidente ormai, ad un occhio attento, a un orecchio allenato e a un cervello in grado di fare due + due che la nostra civiltà, che tanto ha dato in termini di progresso, scienza, tecnologia, arte, filosofia e di cultura, sta arrivando al capolinea e lo sta facendo ormai a passi sempre più veloci. Il debito pubblico mondiale oramai ha superato i 55 trilioni di dollari: 55 mila miliardi di dollari ($55.000.000.000.000) un debito inesigibile. Tanto per capirci il debito pubblico italiano ad oggi è di 2 mila e 361 miliardi di dollari ($2.361.000.000.000). Quello che sta avvenendo in Europa, ossia il disperato tentativo da parte delle banche centrali e della BCE di tenere in piedi un sistema destinato all’implosione, associato alla completa subalternità della politica dei diktat dei grandi organismi finanziari mondiali (= quel famoso 1% di cui sopra…), ci ricorda molto la storia del Titanic. Le banche, dal 2016, "devono informare la clientela del fatto che potrebbero dover contribuire al risanamento di una banca", ha detto il Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, durante un'audizione alla commissione Finanze del Senato. Vuol dire in parole povere che se una banca fallisce i creditori possono prendere i soldi dei nostri risparmi depositati nei conti correnti per ripianare i debiti che hanno prodotto le banche stesse. Cominciano a mettere le mani avanti, perché gli scenari di default non sono solo più ipotesi, ma concrete possibilità. Ma torniamo ai profughi. Qualche anno fa, parlando di questo argomento con un amico ghanese, mi disse alcune brevi ma significative parole: i poveri e i disperati vanno dove ci sono i soldi e se non vuoi che vengano a casa tua devi portare i soldi a casa loro. In questa breve frase è contenuta l’essenza dell’intero problema: la redistribuzione equa della ricchezza prodotta. Il nostro sistema di vita, di consumi e di sprechi ce lo siamo potuti permettere (e ce lo stiamo ancora permettendo) perché qualcun altro ha pagato e sta pagando sulla sua pelle il prezzo al posto nostro. La nostra qualità di vita, anche quella che noi consideriamo al più basso livello della nostra piramide sociale, per la stragrande maggioranza delle persone del pianeta rappresenta un traguardo da raggiungere, un sogno per cui lottare e rischiare. Quei morti nel mare sono quindi il prezzo che stiamo pagando per permetterci il nostro stile di vita. Quei morti non sono la causa dei problemi, ma rappresentano il tragico effetto delle nostre scelte quotidiane e del nostro modo di vivere e consumare. Alcuni di noi si riempiono la bocca di solidarietà, altri di buonismo ipocrita, altri di paura, altri di rabbia, altri ancora di infantile egoismo, ma in realtà nessuno di noi è disposto a ridurre drasticamente il proprio standard di vita per condividerlo con la stragrande parte dell’umanità che giustamente richiede la sua parte. Allora, che fare? Bene, cominciamo a chiedere, anzi no, a pretendere, a quel famoso 1% di paperon de paperoni di “mollare l’osso” e di redistribuire in modo equo la ricchezza da loro accumulata. Cominciamo a chiedere ai nostri politici di difendere la ricchezza prodotta nella nostra nazione, a farla rimanere nella nostra terra e allo stesso tempo di rispettare le ricchezze prodotte dai popoli nelle altre nazioni. Cominciamo a rispettare i diritti umani di tutti, ma proprio di tutti, perché esiste una sola razza: quella umana. Cominciamo a rispettare le economie, le ricchezze e le materie prime degli altri Paesi e se le vogliamo acquistare paghiamole un prezzo equo. Cominciamo a far valere il diritto sul sopruso, il giusto sul conveniente, l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Cominciamo a pensare di vivere secondo le nostre possibilità, i nostri mezzi e le nostre risorse. Cominciamo a riordinare la nostra scala dei princìpi, magari mettendo davanti al denaro la dignità, il rispetto, l’umanità, la compassione. Cominciamo a considerare il valore delle cose e delle persone invece che il loro prezzo. Cominciamo a pensare che non tutto sia negoziabile e che sia sempre solo una questione di soldi. Cominciamo a pensare che il fine non può essere sempre e comunque una giustificazione e un alibi per i mezzi che usiamo. Cominciamo a pensare che un’azione giusta, molte volte, non è conveniente al singolo ma lo è per l’intera comunità e smettiamo di muoverci solo quando “ce ne viene in tasca” qualche cosa. Cominciamo a salvare gli esseri umani prima di salvare le banche. Cominciamo a pensare. Cominciamo, magari, a non appoggiare governi e dittature compiacenti solo perché utili per i nostri business. Cominciamo a considerare “potenziali mercati” quei paesi in cui i diritti umani vengono rispettati e promossi. Cominciamo, dato che ne abbiamo i mezzi e le tecnologie, a produrre energia rinnovabile e a ridurre drasticamente la nostra sete di petrolio e di gas raggiungendo così la nostra indipendenza energetica (=indipendenza politica). Cominciamo insomma a prenderci le nostre responsabilità per le azioni quotidiane e per le scelte che ogni giorno facciamo. Cominciamo a pensare che si può e si deve trovare il modo di vivere in un altra maniera, perché questa qui proprio non funziona più. Tempi molto duri si stanno prospettando all’orizzonte e, almeno per una volta, cerchiamo di non vedere il dito, ma di guardare la luna. Solo questo, forse, ci salverà. Forse è già troppo tardi, ma vale ancora la pena di tentare. In caso contrario i prossimi profughi saremo proprio noi.
1 Commento
Moreno de Respinis
28/4/2015 02:46:26 am
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