C’era una volta, in un paese lontano lontano, ai margini di un grande bosco, un piccolo borgo, abitato da tanta gente industriosa ed operosa. Arnolfo, il borgomastro di questa comunità, apparteneva ad una famiglia che aveva da tempi immemorabili amministrato la comunità, cercando sempre di accontentare tutti, ma un po’ di più i suoi amici. Il vecchio borgomastro viveva nel castello costruito sul punto più alto del paese, proprio vicino al bosco. Questo castello aveva mura alte e spesse e nessuno vi poteva entrare. Il fossato era riempito di acqua nella quale sguazzavano i coccorocrati, i coccodrilli burocrati che non permettevano a nessuno di avvicinarsi. Questo piccolo borgo faceva parte del reame di Furbonia, un regno in cui più che un re comandava la corruzione e il malaffare. Furbonia però, era un paese molto ricco e per molto tempo il suo enorme tesoro fu utilizzato per tenere buoni tutti i sudditi che altrimenti si sarebbero ribellati al malgoverno del re. Ogni anno, dalla capitale, arrivava un forziere con tanti denari sonanti che Arnolfo dispensava a destra e a manca senza curarsi troppo se essi venissero ben spesi o sperperati. Egli sapeva benissimo cosa fare e dove arrivare e organizzò per molti anni molte attività spendendo ogni singolo solido che gli arrivava. Non contento, chiese in prestito alle banche altri denari per costruire ancora di più. Alcuni cittadini cominciarono a dire che forse il piccolo borgo non era abbastanza ricco per sostenere tutti questi debiti e che era molto pericoloso fidarsi solo sui soldi che arrivavano da Furbonia, ma venivano immediatamente zittiti dai coccorocrati che dicevano che erano tutte fesserie e che i conti erano in perfetto ordine. Accadde però che Grauso, il re di Furbonia, sperperò tutta la sua ricchezza rimanendo senza nemmeno un solido e Ilderico, il suo ciambellano, non sapendo che altro fare, cominciò ad aumentare le tasse al popolo e mandare molti meno solidi nei suoi borghi. E fu così che il nostro borgomastro Arnolfo si trovò in una brutta situazione perché non aveva più solidi per pagare i suoi debiti con le banche, non aveva più solidi da distribuire tra i notabili e gli uomini d’affari, non aveva più neanche quei pochi solidi che ogni anno dava ai poveri. I cittadini allora cominciarono a protestare chiedendo di sapere quanti solidi venivano spesi e dove venivano spesi, cominciarono a chiedere a gran voce di poter leggere tutti i documenti e chiedere che si controllasse meglio il modo di fare le cose. Raggiunti i limiti di età, il vecchio borgomastro dovette lasciare il suo incarico. Spettava a suo figlio Alfrone prendere il suo posto, un giovane di belle speranze e di lingua tagliente. Egli aveva il dono di incantare le persone col suo eloquio ed era molto scaltro. Capì infatti, che se voleva mantenere il potere nel borgo doveva convincere tutti i cittadini che lui era di un’altra pasta rispetto al suo vecchio padre e che avrebbe fatto grandi cose rivoluzionando l’intero castello. Tutto sembrava andare per il meglio quando un gruppo di cittadini si organizzò e decise di mandare un suo rappresentante, Ewald, a sfidare il giovane Alfrone. Cominciarono così ad andare per le strade e a parlare con la gente, con tutte le persone e chiedere loro cosa si dovesse fare per migliorare la vita del borgo. I compari e gli amici di Alfrone dapprima cominciarono a deridere e schernire questi umili cittadini, forti del loro potere, ma poi iniziarono a vedere che sempre più persone si fermavano a parlare con loro e che tanti addirittura si univano al gruppo. Più passava il tempo e più Alfrone diventava inquieto e perdeva giorno dopo giorno la sua baldanza e sicurezza. I cittadini, assieme a Ewald, scrissero una lunga lista di cose da fare tutte nuove e rivoluzionarie. Alfrone allora cominciò a far dire ai suoi araldi che quelle cose anche lui avrebbe voluto farle, ma che purtroppo non c’erano abbastanza solidi. Ewald invece, dimostrò che tutte quelle cose si potevano fare perché non costavano nemmeno un solido. Alfrone allora si mise immediatamente alla ricerca di altri alleati, anche tra quelli che fino allora erano stati suoi nemici: erano i potenti feudatari, che potevano aiutarlo a vincere. L’importante, per Alfrone, era conquistare la carica di borgomestro. Se avesse perso, il suo vecchiio padre, non l’avrebbe mai perdonato. Era vicino il tempo delle elezioni e ormai tantissimi cittadini erano fermamente decisi a voler cambiare le cose. Il giorno delle elezioni, tutti i potenti feudatari che fino a poco tempo prima avevano osteggiato Alfrone, si presentarono davanti ai seggi e fecero capire a tutti, con le buone o con le cattive, per chi chi fosse meglio votare. Il giorno appresso si seppe l’esito del voto: aveva vinto Alfrone. Di poco, ma aveva vinto. La dinastia era salva. Anche il suo vecchio padre Arnolfo andò nella sala grande del castello per fersteggiare il suo figliolo e complimentarsi con lui per la stupenda vittoria conseguita. Proprio quando la festa era al suo apice, improvvisamente si aprì la porta del salone con un fragore tale da ammutolire tutti gli invitati, bloccare i ballerini, zittire i musici e i santimbanchi. Ad uno ad uno, nella sala entrarono tutti i feudatari, scortati dai loro armigeri armati di tutto punto. Entrarono Gandulfo, Isnart, Leuthario, Randwulf e Sigmar. Poi entrò il gigantesco Godefrit, il più potente di loro, e avanzò verso il tavolo imbandito, sguainò il suo pesante spadone e con un colpo secco staccò la testa del maialino che era stato appena tolto dal forno e portato in tavola. Lasciò poi la spada conficcata nel tavolo e si congedò augurando una felice serata a tutti e in special modo ad Alfrone, dicendogli che quella spada era un suo grazioso dono che avrebbe potuto usare come fermacarte sulla sua nuova scrivania di borgomastro, in modo da ricordargli, costantemente, i vincoli di amicizia che ora li legavano indissolubilmente. In quel momento Alfrone capì che in quell’immenso palazzo, in mezzo a tutta quella gente, in realtà era un uomo solo e nulla avrebbe potuto fare senza il consenso dei potenti feudatari. Il potere concentrato tutto nelle sue mani lo aveva reso l’uomo più debole ed indifeso di tutto il borgo. Non avrebbe potuto chiedere aiuto a nessuno nè tantomeno nascondersi o farsi proteggere dai coccorocrati. Niente e nessuno aveva il potere di difenderlo dalle angherie dei feudatari. Allora, solo in quel momento, capì che l’unica vera soluzione era quella che aveva escogitato Ewald e quel gruppo di umili cittadini che aveva battuto alle elezioni: il segreto era spezzettare il potere e metterlo nelle mani di ogni singolo cittadino. In quel modo nessuno aveva veramente il potere di decidere, ma tutti insieme erano molto più potenti di tutti i feudatari uniti. Il voto e la partecipazione proteggevano tutti gli abitanti del borgo molto più che una intera guarnigione di armigeri. Alfrone, con gli occhi sbarrati, si accasciò come uno straccio bagnato, sulla sua poltrona, quasi senza forze e non disse più nemmeno una parola passando tutto il resto della sera a fissare lo spadone rimasto conficcato nel tavolo, maledicendo la sua stupidità e la sua brama di potere.
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Giugno 2020
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